La produzione degli arazzi è conosciuta fin dall’antichità ma durante il Rinascimento conobbe il suo periodo di massimo splendore. La produzione delle Fiandre, e più in generale quella franco-fiamminga, era particolarmente rinomata e proprio da questi territori la Corte Estense, sempre attenta alle mode legate al mondo cortese d’Oltralpe, acquistava direttamente o chiamava arazzieri nordici a lavorare a Ferrara.
Gli arazzi sono caratterizzati da una lavorazione a metà tra artigianato e arte ed erano oggetti molto pregiati, perché intessuti con filamenti di metalli preziosi come oro e argento e richiedevano una lunga elaborazione. Il disegno veniva eseguito da un artista affermato, solitamente un pittore, che su di un cartone tracciava la composizione a dimensione reale, questa poi veniva materialmente eseguita da un tessitore. Grazie alle notevoli dimensioni venivano utilizzati per occupare grandi pareti spoglie, inoltre aiutavano a isolare le fredde mura dei castelli.
Purtroppo sono scarsissime le testimonianze di arazzi ferraresi giunti fino a noi, le tracce certe individuano quest’opera e la sua copia, di poco posteriore e con piccole variazioni, conservata al Cleveland Museum of Art.
Questo arazzo rivestiva la parte anteriore dell’altare (antependium) e racconta con enfasi e ricchezza di particolari la “Pietà di Cristo”. Il bordo esterno simula un trompe l’oeil con effetto di bordatura metallica e con pietre preziose incastonate.
Altri due arazzi, i quali però risalgono alla metà del Cinquecento circa, sono conservati al Louvre e probabilmente furono commissionati da Alfonso I per la decorazione di una Delizia.
La composizione è ricca non solo di dettagli, ma anche di una complessa resa cromatica che si evidenzia soprattutto nei cambi di tono, infatti i chiaroscuri sono difficili da ottenere mediante la tessitura. Il primo piano della scena è occupato dal corpo irrigidito e fortemente scorciato del Cristo morto, attorno a lui ai piedi della croce sono disposte sei figure, identificabili da sinistra con due pie donne che sorreggono la Vergine, San Giovanni Evangelista, Giuseppe d’Arimatea che stringe nella mano i chiodi della crocifissione e, ai piedi di Cristo, la Maddalena. Le figure sono descritte attraverso le emozioni che le travolgono: i visi sono contratti dal dolore e le lacrime scendono copiose. Nelle figure di San Giovanni e nella donna al suo fianco sono stati riconosciuti i ritratti di Ercole I e della moglie Eleonora d’Aragona, elemento in grado di identificare la committenza. Da notare il particolare con cui è ritratta Eleonora, infatti porta il corpetto allentato sull’addome simbolo probabilmente di una gravidanza. Il corpo di Cristo emerge con violenza dalla composizione: la muscolatura tesa e definita, il sangue che, come una ragnatela, fuoriesce dalle mani e dai piedi mentre il volto deformato dal dolore caricano la composizione di pathos.
In secondo piano sulla destra due figure di spalle sono intente a scostare la lastra dal sepolcro, che presto ospiterà il corpo di Cristo. Il paesaggio retrostante è composto da rilievi collinari arricchiti da alberi e da architetture. Ai piedi delle figure spuntano, dalla terra rocciosa e arida, gruppetti di fiori tra cui violette, margherite, garofani descritti con precisione naturalistica.
L’autore del cartone è stato identificato con Cosmè Tura, mentre l’esecutore fu Rubino di Francia, già in servizio presso Piero de’ Medici, il quale lo inviò a lavorare alla Corte Estense dal 1458 al 1484.