Nonostante il suo governo sia stato lunghissimo, ben trentotto anni, e abbia coinciso con un altrettanto longevo periodo di pace, Alfonso II è passato alla storia per essere stato l’ultimo Duca di Ferrara. La mancanza di un erede alla sua successione, cercato costantemente attraverso tre matrimoni, ha di fatto interrotto la dinastia degli Este, permettendo allo Stato Pontificio di rivendicare il territorio di Ferrara, alla morte di Alfonso nel 1598.
Un governo ufficialmente senza guerre, ma caratterizzato da una “battaglia” altrettanto dispendiosa: la questione della “precedenza” contro Cosimo dei Medici. Fu un peso enorme per le casse dello Stato ferrarese, su cui gravavano anche un vasto fenomeno di corruzione e sperpero di denaro pubblico da parte dei ministri a lui più vicini oltre alle ingenti spese per il violento terremoto del 1570, tutti fattori che portarono a una vera e propria crisi finanziaria. Queste circostanze indebolirono sempre di più il governo di Alfonso II, rendendo inevitabile alla sua morte, data la mancanza di eredi, la Devoluzione di Ferrara.
Ciò non toglie che la vita della corte dell’ultimo Duca di Ferrara fosse comunque magnifica, caratterizzata da banchetti sontuosi, teatro e spettacoli vari: qui furono accolti letterati e artisti tra cui Giovanni Battista Guarini, Torquato Tasso e Pirro Ligorio. Senza dimenticare che in questo periodo venne ideato il “Concerto delle dame”, che confermò Ferrara come rinomato centro musicale e che fu imitato in molte delle corti italiane ed europee, un riconoscimento per il valore della città e della corte estense.
La vita
Alfonso nasce a Ferrara il 22 novembre 1533 dall’unione di Ercole II e Renata di Francia, figlia di re Luigi XII. La sua infanzia trascorre tranquilla seguendo le regole previste per l’educazione di un giovane principe, tra istruzione letteraria e cavalleresca: Alfonso conosceva il latino e il francese, amava la caccia, le giostre e le feste. Tra le sue passioni giovanili c’era anche quella per la guerra: disobbedendo a un ordine paterno, per esempio, all’età di 18 anni Alfonso era fuggito in Francia presso il cugino, il Re Enrico II e, a capo di una compagnia di cavalieri, aveva saputo distinguersi in battaglia per bravura e coraggio.
Tre matrimoni in cerca di un erede
Il matrimonio ha sempre rappresentato per Alfonso II una questione complessa: come noto, nonostante abbia avuto ben tre mogli, nessuna di loro riuscì a garantirgli l’indispensabile erede di cui il Ducato aveva bisogno.
Il primo matrimonio fu quello con Lucrezia de’ Medici: era stato accordato all’indomani della nuova alleanza tra Ercole II a Cosimo I dei Medici, il quale era stato il mediatore nell’accordo di pace firmato tra il Duca estense e il re spagnolo Filippo II.
Anche se non era realmente entusiasta della scelta del padre, Alfonso sposò Lucrezia nella cappella di Palazzo Vecchio a Firenze, il 3 luglio 1558 per saldare l’alleanza con il Ducato di Firenze. Dopo i consueti festeggiamenti, Alfonso tornò precipitosamente sul campo di battaglia, al seguito dell’esercito di Enrico II, ma soprattutto fece ritorno presso la corte francese, dove i passatempi erano numerosi e piacevoli. Solo la morte del padre lo costringerà a rientrare a Ferrara, fermandosi a Firenze, dalla consorte, nel novembre dell’anno seguente.
La condizione di figlio primogenito, già designato dal padre come suo successore, fece sì che la salita al potere di Alfonso fu poco più di una semplice formalità. La Duchessa Lucrezia arrivò nella sua nuova città durante il carnevale del 1560, mostrando fin da subito i segni di una salute cagionevole, tanto che nell’aprile del 1561 morirà giovanissima per un’infezione polmonare.
Il “diritto di precedenza” e la competizione con i Medici
Quella di Lucrezia fu una morte dalle duplici conseguenze: se da una parte aveva “liberato” Alfonso da un legame non voluto, dall’altra ha anche sancito la rottura dei rapporti tra gli Este e i Medici, facendo immediatamente riemergere forti risentimenti tra le due famiglie a causa della questione sul diritto di “precedenza” nelle cerimonie ufficiali. Entrambe le casate, infatti, evocavano a sé il diritto di rivestire una posizione prevalente, il che avrebbe dimostrato la maggiore importanza dell’una rispetto all’altra. La questione si trascinava dal 1541 e, dopo svariate soluzioni che non mettevano d’accordo tutti, solo nel 1564 fu chiamato a redimere la questione il nuovo Imperatore Massimiliano II, che come al solito, trovò l’accordo in due matrimoni contratti a fini politici. La soluzione sulla carta sembrava semplice ed efficace: Alfonso avrebbe sposato Barbara, mentre Francesco dei Medici avrebbe preso in moglie Giovanna, entrambe figlie dell’Imperatore Ferdinando I d’Asburgo. Entrambe le nozze si sarebbero dovute svolgere a Trento, nello stesso giorno, ma il tutto fu rimandato a causa dell’ennesima lite su chi avesse precedenza nella cerimonia: Massimiliano II fu pertanto costretto a posticipare e a imporre che si svolgessero nelle rispettive città.
La seconda moglie: Barbara d’Austria
Come stabilito dall’Imperatore Massimiliano II, Alfonso e Barbara d’Austria si sposarono a Ferrara il 5 dicembre 1565. Per celebrare al meglio le nuove nozze, il Duca incaricò una bottega faentina di creare un’intera credenza di maioliche, composta da piatti, ciotole, zuppiere, versatori e altre stoviglie per la tavola. Il vasellame creato per l’occasione era decorato con lo stemma policromo degli Este-Ungheria, sormontato dalla corona ducale e circondato dal collare del Toson d’Oro. Fortunatamente sono arrivati fino a noi alcuni dei pezzi che componevano questo servizio: due zuppiere e un piccolo vaso sono conservati al Museo Civico d’Arte di Modena, mentre un’altra zuppiera si trova presso il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza.
L’opulenza mostrata in occasione del matrimonio si mantenne costante anche in tutti i festeggiamenti, il cui apice si raggiunse l’11 dicembre, quando ebbe luogo il torneo “Trionfo d’amore”: una grandiosa rappresentazione cavalleresca della durata di otto ore, che riuscì a impressionare tutti gli spettatori tra cui anche Torquato Tasso, giunto per la prima volta a Ferrara al servizio del cardinale Luigi d’Este, fratello di Alfonso. Ma non finì lì: il Cardinale aveva, infatti, organizzato per il giorno seguente un sontuoso banchetto nella sua residenza di Palazzo dei Diamanti: un evento di cui resta la preziosa testimonianza dello scalco Giacomo Grana, che ne fece una precisa descrizione. La quantità e la varietà di cibo erano imponenti: si spaziava dal pesce d’acqua dolce fatto arrivare dai laghi di Garda e d’Iseo a quello di acqua salata; non mancavano poi le primizie di frutta e verdura come carciofi, cardi e fave (nonostante fosse dicembre), fino ad arrivare all’immancabile carne, tra cinghiali, lepri, caprioli e ancora pavoni, maiali e volatili. Un esempio che fa ben comprendere la dimensione e la sontuosità di questi banchetti, è dato dal fatto che Grana aveva fatto acquistare per l’occasione ben diecimila ostriche. Era sempre compito dello scalco provvedere agli ornamenti e all’intrattenimento musicale: la sala era stata addobbata con fiori, soprattutto garofani, e festoni di fogliami e agrumi. Sfortunatamente, l’improvvisa morte del Pontefice Pio IV, al secolo Giovanni Angelo Medici di Marignano, avvenuta il 9 dicembre, costrinse gli sposi ad annullare il banchetto e Alfonso fu praticamente obbligato a recarsi d’urgenza a Roma per iniziare le attività diplomatiche in favore del proprio Ducato, in attesa dell’elezione del nuovo Papa.
Queste costose attività contribuirono ad aggravare ancora di più la situazione delle casse ducali e Alfonso fu costretto a imporre nuove tasse per cercare di risollevare la situazione. Ovviamente queste nuove imposte crearono un’ondata di forte malcontento tra la popolazione.
Inoltre, anche il secondo matrimonio era destinato a durare solo qualche anno: nel settembre del 1572, Barbara morì per tubercolosi. Nello stesso anno mancò anche lo zio Ippolito II, il potente Cardinale che aveva scelto di vivere a Tivoli dove commissionò a Pirro Ligorio l’ideazione della Villa d’Este con lo straordinario giardino italiano.
Le terze nozze e la profezia di Nostradamus
La situazione finanziaria del Ducato divenne ben presto insostenibile e a questa si aggiunsero la bolla di Pio V, al secolo Antonio Ghislieri, in cui si vietava l’investitura di feudi ecclesiastici a figli illegittimi (1567) e il terremoto del 1570: un insieme di eventi negativi che aumentò il malcontento del popolo, rendendo sempre più instabile il governo di Alfonso II. In questo contesto e sotto gli occhi attenti delle altre corti e del suo stesso popolo, il Duca non poteva permettersi di abbandonare l’idea di avere un erede, arrivando a riporre nella profezia di Nostradamus l’ultima speranza: “Al terzo matrimonio e all’età di cinquanta anni circa avrai un erede”. Così nel 1579 sposò la giovanissima Margherita Gonzaga, figlia del Duca Guglielmo, nel tentativo di divenire finalmente padre, ma anche per rafforzare l’antica alleanza tra le due famiglie.
Anche in questo caso le celebrazioni furono favolose. Del fantastico banchetto ci restano i meravigliosi pezzi di un’altra credenza che Alfonso commissionò alla bottega urbinate dei Patanazzi: piatti, coppe, brocche, saliere e altri elementi che decoravano la tavola. Oggi queste ceramiche sono custodite in musei e collezioni private sparse in tutta Europa e sono riconducibili a questo matrimonio grazie all’impresa che vi è sopra dipinta: ogni ceramica reca il motto “Ardet Aeternum” e il disegno di una fiamma, a rappresentare il fuoco dell’amore che eternamente arde. Questa impresa fu utilizzata anche in altre occasioni, ma gli studiosi sono concordi sulla sua attribuzione: essa infatti è uguale a quella presente sul retro di una medaglia commemorativa eseguita proprio in occasione del matrimonio Este-Gonzaga.
Gli errori in politica estera e interna
Essendo a capo di un piccolo Stato, gli Este dovevano continuamente riaffermare la propria forza, ostentando magnificenza attraverso la committenza di opere d’arte preziosissime, ad esempio la Bibbia di Borso, oppure di grandiose opere architettoniche e territoriali, come l’Addizione Erculea e le numerose bonifiche, in modo da mantenere una posizione di supremazia e ottenere il rispetto, sia dal popolo che dagli altri Stati. I governanti Estensi hanno sempre saputo bilanciare questo aspetto, essenziale per la loro sopravvivenza, con la corretta amministrazione pubblica e finanziaria. Ma con Alfonso II le cose andarono diversamente: la sua ambizione personale di apparire grandioso lo spinse a fare scelte che si riveleranno disastrose per il Ducato.
La brama di Alfonso di ottenere prestigio e popolarità, come si è visto in occasione del suo secondo matrimonio, lo spinse infatti a non badare a spese, anche a svantaggio dello Stato. Le stesse motivazioni lo indussero nel 1566 a sostenere l’Imperatore Massimiliano II nella guerra contro i Turchi, scelta che si rivelò inutile e dispendiosa: alla guida del suo esercito era giunto al campo imperiale presso Raab in Ungheria, quando gli fu comunicata la notizia dell’armistizio concordato dall’Imperatore a seguito della morte di Solimano II, con conseguente ritiro delle truppe. L’impresa finì quindi sul nascere e Alfonso dovette contare le numerose perdite di soldati durante la lunga marcia nella campagna ungherese e lo sperpero di risorse, mentre in cambio ottenne solo la riconoscenza da parte dell’Imperatore. L’insidia più pericolosa per il ducato ferrarese proveniva, però, da un’altra parte e aveva radici lontane, in quella guerra iniziata da Alfonso I e Giulio II. Lo Stato Pontificio non aveva mai abbandonato l’idea di tornare in possesso del territorio del Ducato Estense e già Alfonso I aveva combattuto con tutta la forza e la diplomazia possibili per arginare le mire espansionistiche del Papato. Questa volta la situazione non prevedeva guerre, ma dipendeva da una condizione personale e fisica dello stesso Alfonso II: l’impotentia generandi. Ferrara era infatti concessa come vicariato e se il Duca non avesse avuto eredi, questa sarebbe tornata in possesso dello Stato Pontificio. La sterilità di Alfonso II era una condizione risaputa e pare fosse congenita e non ascrivibile alla caduta da cavallo avvenuta in Francia, una versione che era comunemente accettata da tutti. È su questi presupposti che si mosse Pio V, emanando nel 1567 una bolla in cui istituiva il divieto di investiture di feudi ecclesiastici a figli illegittimi. Di fatto, anche senza nominarlo direttamente, il Duca veniva messo con le spalle al muro: da un lato era senza figli e dall’altro il ramo dei marchesi di Montecchio, quello di Laura Dianti, era considerato illegittimo perché il matrimonio con Alfonso I in articulo mortis non era mai stato riconosciuto dalla Chiesa.
La rivalità con i Medici si riaccese ancora quando Pio V nel 1570 concesse a Cosimo la dignità superiore di Granduca e il titolo di Altezza e di Serenissimo: questo riconoscimento amareggiò Alfonso II in maniera profonda e personale, in quanto Cosimo era anche in procinto di diventare padre.
Due anni più tardi (1572) Alfonso si recò a Roma per omaggiare il nuovo Pontefice Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, e colse l’occasione per convincerlo a concedergli il diritto di nominare un erede che potesse succedergli nel dominio di Ferrara. Il Papa, però, non poté accogliere la richiesta perché era in opposizione a quanto sancito dalla bolla di Pio V. Un diniego che era il preludio a un’altra delusione: nel 1574 infatti, la corte imperiale non gli convalidò il titolo di Altezza e Serenissimo e di Duca di prima classe ottenuti dall’Imperatore Massimiliano II. La voglia di riscatto di Alfonso però non si fermò e nello stesso anno avanzò la proposta di diventare re del Regno di Polonia, affidando al cavaliere e poeta Giovanni Battista Guarini il compito di portare avanti l’ambasceria a suo favore. Erano infatti molti i pretendenti al trono vacante di Polonia e inizialmente alcune voci davano proprio Alfonso tra i favoriti, ma contrariamente a quanto auspicato, dalla votazione uscì vincente il voivoda di Transilvania. Quest’ennesimo insuccesso appannò la figura di Alfonso II agli occhi del popolo e delle altre corti che lo ritenevano inconcludente e frivolo, nel perdere tempo in feste e tornei.
L’occasione di riscatto gli si presentò poco dopo, quando nel gennaio del 1576 un diploma cesareo riconobbe ufficialmente a Cosimo I il titolo di Granduca: contro tale scelta si sollevarono le proteste delle famiglie Gonzaga, Farnese, Savoia e ovviamente degli Este. Le quattro casate decisero di unirsi in un’alleanza che le rendesse più forti e il modo migliore per consolidare una coalizione era, ancora una volta, quello di ricorrere a matrimoni politici. Fu in questa occasione che Alfonso II sposò Margherita Gonzaga, di quasi trent’anni più giovane: solo che nemmeno la celebrazione di questo terzo matrimonio fu improntata alla sobrietà, pesando sulle casse pubbliche e, soprattutto, sollevando ancora una volta lo scontento cittadino.
Oltre a questo, durante gli ultimi anni del suo governo, Alfonso, ormai rassegnato all’inevitabile destino che stava per abbattersi sugli Este, lasciò decisioni e compiti molto delicati nelle mani di pochi ministri, spesso corrotti, che raggiravano il Duca e gravavano il popolo di tasse, mettendolo sempre più in difficoltà. Il Duca, pur conoscendo la gravità della situazione, non prese posizione a favore dei suoi cittadini, anzi riuscì a peggiorare la situazione con atti sconsiderati ed eccentrici: ad esempio vietò la caccia, giungendo a proibire la pulizia di canali e fossi per non disturbare la selvaggina.
La vendetta di Lucrezia d’Este
Gli atti e le decisioni prese in questi ultimi anni di governo, indebolirono l’affetto dei ferraresi nei confronti degli Este, che iniziarono a perdere il fondamentale sostegno popolare, che non era loro mai mancato, soprattutto nei periodi più duri. Anche all’interno della stessa famiglia i legami erano diventati molto fragili e sarà un episodio di violenza a segnare per sempre la storia.
La figura centrale di questa vicenda è Lucrezia, sorella di Alfonso, andata in sposa a Francesco Maria della Rovere, futuro Duca di Urbino. Si trattava di nozze combinate, come tante altre, ma con una sostanziale differenza: Francesco Maria era un giovane principe di appena vent’anni, mentre Lucrezia era già una donna di quindici anni più grande di lui. Fin da subito nella coppia emersero molte divergenze e ben presto Lucrezia lasciò Urbino e fece rientro nella sua città, dove trovò l’amore corrisposto del conte Ercole Contrari, capitano dei Cavalleggeri della Guardia Ducale. La loro relazione venne rivelata ad Alfonso II, il quale non esitò a dare ordine di uccidere il proprio capitano per evitare eventuali disaccordi politici con Urbino. Ad Ercole fu tesa una trappola: chiamato al castello per incontrare il Duca fu preso alle spalle e strangolato. Per nascondere l’omicidio fu poi coricato su un letto e, finto un tentativo di soccorso, la morte fu attribuita ad un colpo apoplettico. Lucrezia, però, venne a conoscenza della verità e abbandonata l’idea di felicità, con il cuore spezzato, giurò vendetta sia al Duca, mandante dell’esecuzione, sia allo zio don Alfonso, colui che lo aveva informato. Lucrezia saprà aspettare e nel momento della Devoluzione giocherà un ruolo fondamentale nella capitolazione di Ferrara.
Salvare Ferrara senza un erede
Alfonso II non si era ancora rassegnato alla mancanza di un erede diretto e nel 1581 propose perfino al fratello Luigi di sposare Marfisa d’Este, ma essendo questi un Cardinale era necessaria la dispensa dallo Stato Pontificio. Nonostante la salute cagionevole del prelato rappresentasse un’incognita per la buona riuscita dell’iniziativa, vennero intraprese alcune missioni diplomatiche esplorative presso la Santa Sede ma, per l’ennesima volta, il Papa si rimise alla bolla del 1567 di Pio V, ritenendo la richiesta inammissibile.
Le ultime forze, nel cercare una soluzione, furono dedicate esplicitamente a convincere il Pontefice, di concedere una deroga alla bolla di Pio V, proponendo l’investitura del Ducato a una persona da designare. Dopo un abile lavoro diplomatico a distanza, Alfonso II giunse a Roma nell’agosto nel 1591 per concludere un accordo con Gregorio XIV, al secolo Niccolò Sfondrati, ma nemmeno in quel momento di estrema delicatezza il Duca seppe accondiscendere alla soluzione accolta dal Papa senza imporre nuove condizioni. Il Pontefice, attraverso un atto motu proprio, era infatti d’accordo nel designare come successore Filippo d’Este Marchese di San Martino in Rio, del ramo “sigismondino” (figlio di Sigismondo d’Este, fratello di Alfonso I), ma Alfonso cambiò idea: egli preferiva Cesare, del ramo dei Montecchio, e per lui cercò di ottenere l’investitura senza però precisare chi fosse la persona a cui era destinata. Ovviamente, posta in questa forma, la concessione gli fu negata.
La morte di Gregorio XIV costrinse a fermare le trattative, che ripresero con il suo successore Innocenzo IX, al secolo Giovanni Antonio Facchinetti de Nuce, il quale, non approvando la soluzione ipotizzata fece sfumare il tanto ambito accordo. La salita al soglio pontificio di Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, riaccese in Alfonso II le speranze dato che il nuovo Papa era notoriamente in buoni rapporti con gli Estensi ma, contrariamente a quanto sperato, il Pontefice mise immediatamente in chiaro la propria intenzione di riannettere il territorio ferrarese al dominio della Chiesa, ribadendo la validità della bolla di Pio V.
Persa la partita con lo Stato Pontificio, nell’agosto del 1594 Alfonso II ebbe riconosciuta dall’Imperatore Rodolfo II – dietro pagamento di 400.000 scudi – la successione dei feudi di Modena, Reggio e Carpi a Cesare d’Este, della linea di discendenza dei Montecchio, salvando così il titolo ducale e una parte del territorio.
A distanza di un anno, il 17 luglio 1595, Alfonso stilò il suo testamento nominando suo successore ed erede universale dei propri beni il cugino Cesare d’Este, nato nel 1562 da Alfonso di Montecchio (figlio di Alfonso I e Laura Dianti) e Giulia della Rovere, e sposato dal 1586 con Virginia, figlia di Cosimo I dei Medici. Nell’ottobre del 1597 le condizioni di salute del Duca si aggravarono, tanto che egli vietò persino alla giovane moglie di stargli accanto. Riuscì comunque a impartire le sue ultime disposizioni politiche e il 27 ottobre 1597 morì.
I solenni funerali di Casa d’Este erano ormai solo un vago e lontano ricordo: dopo il rito nella cappella ducale senza nemmeno un elogio funebre, la salma di Alfonso II fu trasportata nella chiesa del Corpus Domini, accompagnata solamente da alcuni frati.
1570: il sisma che distrusse Ferrara
Il 16 e 17 novembre 1570 la città di Ferrara fu distrutta da un terribile terremoto che provocò ingentissimi danni, aggravando la già compromessa situazione finanziaria dello Stato di Alfonso II. Le cronache dell’epoca descrivono una situazione disperata: si susseguirono ben quattro scosse e l’ultima fece crollare gran parte degli edifici lesionati dalle precedenti; nel frattempo tutta la popolazione si riversò nelle strade cercando salvezza negli spazi aperti. I danni furono enormi: tra gli edifici maggiormente colpiti figurano il Duomo, il Palazzo Ducale, il Castello, numerose chiese e monasteri oltre alle abitazioni private dei cittadini. Inoltre, come si è verificato anche in occasione del recente sisma che ha colpito l’Emilia Romagna nel 2012, già allora si manifestarono fenomeni di liquefazione delle sabbie. La popolazione fu costretta a vivere a lungo accampata in spazi aperti, stremata sia dallo sciame sismico che durò con intensità per almeno due mesi, sia dalle rigide condizioni atmosferiche. Le conseguenze sull’economia e sulla salute delle persone furono impietose e portarono ad affrontare anni difficilissimi, con molti periodi di carestia.
Il Duca e la Duchessa si prodigarono per aiutare la popolazione, scegliendo di non lasciare la città in modo da essere d’esempio per evitare lo spopolamento di massa. Anche loro furono costretti a vivere in una tenda nel giardino ducale, durante il lungo inverno ferrarese. Tale sistemazione aggravò la delicata salute di Barbara, che comunque non fece mai mancare il suo impegno in favore del popolo: per aiutare le giovani fanciulle rimaste orfane o abbandonate fondò proprio in quel periodo il Conservatorio delle Orfane di Santa Barbara e finanziò la costruzione della Chiesa del Gesù. Fu in questo edificio che, dopo la sua morte, Alfonso II fece realizzare nell’abside il monumento sepolcrale: si tratta dell’unico sepolcro estense ferrarese rimasto nell’originaria collocazione.
Torquato Tasso e Ferrara
Torquato Tasso (1544 – 1595) è stato uno dei maggiori poeti e letterati italiani del Cinquecento ed era già celebre quando nel 1565 entrò a servizio del Cardinale Luigi d’Este, fratello di Alfonso II. Ben presto il letterato conquistò la Corte e soprattutto la simpatia di Lucrezia, sorella del Duca. Rientrato nel 1571 dal viaggio in Francia al seguito del Cardinale, Tasso passò quindi tra gli stipendiati di Alfonso II, con il compito di comporre versi. Gli anni successivi furono intensi e dopo aver composto il dramma pastorale Aminta, portato in scena a Corte, continuò a lavorare sul suo capolavoro, la Gerusalemme liberata, che può dirsi concluso nel 1575. Da quel momento, però, iniziò per Tasso un periodo di instabilità emotiva: cercò protezione sotto altri principi mecenati, mettendo continuamente in dubbio il proprio lavoro, ma soprattutto, volle sottoporre la sua opera alla verifica del tribunale dell’Inquisizione. Tanto era ossessionato dalla conformità ai principi della Controriforma, e a seguito dell’assoluzione da parte di quello ferrarese si rivolse persino alla Santa Sede. Queste azioni personali e il contatto con lo Stato Pontificio in tema di eresia, non piacquero ad Alfonso II, soprattutto per i precedenti vissuti con la madre Renata che era stata condannata come eretica e che, solo per amore del figlio diventato Duca, lasciò la città nel 1561. Anche per questo, in seguito all’episodio dell’aggressione commessa dal Tasso nei confronti di un servitore, Alfonso II fu costretto a condurlo nel convento di San Francesco, da dove però riuscì a scappare e raggiungere la sorella a Sorrento. Dopo due anni, Tasso scelse di tornare a Ferrara, ma al suo rientro, nel febbraio del 1579, trovò la Corte impegnata nei preparativi per le terze nozze di Alfonso II e venne accolto con freddezza. Esasperato dalla situazione e dalle sue nevrosi, esplose in ingiurie e offese rivolte al Duca e ai cortigiani. Per questo fu immediatamente allontanato e portato in catene all’Ospedale Sant’Anna, dove venne rinchiuso per sette anni: prima in isolamento e poi con maggiori libertà. Durante questo tempo di reclusione, Tasso continuò a scrivere: non solo liriche, ma anche numerose lettere per sollecitare la sua liberazione. Durante questi anni furono pubblicate alcune edizioni della Gerusalemme liberata non autorizzate dal Tasso, il titolo venne attribuito da un editore e non dall’autore, un sopruso che contribuì ad aggravare la sua crisi. Solo nel luglio del 1586 Alfonso II acconsentì alla sua liberazione e lo consegnò nelle mani di Vincenzo Gonzaga, suo cognato.
La carcerazione del Tasso, invero, fece molto discutere: la scelta di privare della libertà il poeta non era condivisa da tutti e anche in questo caso la figura di Alfonso II ne uscì appannata. La critica ha proposto diverse chiavi di lettura per un atto che sembra eccessivamente duro, nei confronti di un letterato di corte: alcuni vi hanno visto la volontà del Duca di non fare allontanare il poeta dalla città, altri hanno interpretato il gesto come la soluzione per far cessare i suoi contatti con la Santa Sede, in modo da evitare l’insorgenza di un qualsiasi pretesto contro Ferrara.
La cultura di Alfonso II: la passione collezionista e il concerto delle dame
La passione collezionistica che ha sempre contraddistinto gli Este fu un tratto comune anche in Alfonso II, attratto da statue, cammei, gemme, medaglie, monete e libri. Una passione che veniva esaltata anche dall’importanza dei nomi degli antiquari di corte che aveva voluto accanto a sé: figure come Enea Vico e successivamente Pirro Ligorio, spesso in viaggio alla ricerca di opere rare e preziose. Probabilmente, però, fu il collezionismo librario quello più sentito da Alfonso II, confermato dagli acquisti di importanti volumi per la biblioteca ducale come codici latini e greci, oltre ad importanti manoscritti miniati.
Anche la musica accese la passione di Alfonso, soprattutto nell’ultimo periodo del matrimonio con Margherita Gonzaga. Per la moglie il Duca istituì il “Concerto delle dame principalissime”, divenuto talmente famoso che non c’era persona che, di passaggio per i territori estensi, non volesse ascoltare queste musiciste. Il complesso era costituito da tre cantanti, dame di compagnia della Duchessa: queste sono state individuate dagli studiosi in Laura Peperara (o Peverara), cantante e arpista mantovana; Anna Guarini, cantante e liutista ferrarese figlia di Giovanni Battista Guarini; Livia d’Arco, cantante e suonatrice di viola da gamba. Durante le esibizioni le tre dame potevano comunque essere accompagnate anche da figure maschili, ma solo in occasioni speciali, come speciali erano questi stessi momenti musicali, dato che erano riservati alla sola Corte e ai suoi ospiti illustri: anche i brani musicali composti per l’occasione erano vietati al pubblico e conservati in segreto.
Il concerto ideato da Alfonso II riscosse un grande successo anche per la novità dovuta all’introduzione di un numero maggiore di voci e di strumenti come la viola, il liuto e l’arpa in aggiunta al tradizionale clavicembalo dei madrigali. Quindi il “Concerto delle dame” seppur nella parabola discendente degli Estensi a Ferrara, riuscì a mantenere il ruolo centrale di questa Corte in campo musicale e a confermarne il prestigio e la fama. Molti furono i Signori che imitarono questo spettacolo nelle proprie corti, tanto che la richiesta di musiciste donne aumentò in maniera importante, promuovendo al contempo un ruolo nuovo per la figura femminile.
Ancora oggi è possibile ammirare alle Gallerie Estensi il simbolo che più di ogni altro esprime la passione per la musica nella corte di Alfonso II: l’arpa estense, da lui commissionata per il “Concerto delle dame principalissime”. Lo strumento era destinato a Laura Peperara e fu realizzato a Roma dal 1581, in una bottega della cerchia di Giovanni Battista Giacometti: realizzata in legno d’acero e di pero verniciato, l’arpa è composta da una doppia fila di quarantanove corde. La successiva decorazione fu realizzata tra il 1587 e il 1589 ad opera del ferrarese Marescotti: il disegno dei fregi superiori sono di Giuseppe Mazzuoli detto il Bastarolo, mentre l’esecuzione degli stessi è del fiammingo Orazio Lamberti, infine fu dorato da Giovan Battista Rosselli. Dopo la Devoluzione di Ferrara l’arpa arrivò fortunatamente integra a Modena nel 1601, dove è ancora possibile ammirarla.
Il Castello Estense: la Cappella Ducale e gli affreschi con la genealogia estense
Per lungo tempo la Cappella Ducale estense fu conosciuta con la denominazione “Cappella Ducale di Renata di Francia”, frutto di una presunta committenza della dama francese, basata sulla particolare decorazione priva di immagini sacre, come imponevano i precetti del calvinismo seguiti dalla Duchessa. Solo recenti studi e restauri hanno portato alla luce nuove prove sul reale committente, che fu Alfonso II. Il Duca fece infatti realizzare la Cappella tra il 1587 e 1591, a seguito del terremoto del 1570: si presenta come un piccolo scrigno impreziosito da marmi policromi, inseriti in cornici di stucchi dorati, concluso da una volta ornata con le immagini degli Evangelisti, intervallati da l’aquila bianca, noto emblema estense.
La ricerca di nobili origini e la celebrazione dinastica erano argomenti a cui gli Estensi davano molta importanza, soprattutto in un’ottica di propaganda e di rafforzamento politico nei confronti delle altre famiglie regnanti. Tanto è vero che in molteplici occasioni i letterati di corte furono chiamati a scrivere l’albero genealogico, in modo da collegare gli Este con figure di indiscusso valore e prestigio. Durante il governo di Alfonso II, come noto, la discussione più appassionata riguardò la questione sul diritto di precedenza rispetto ai Medici ossia su quale delle due famiglie avesse origini più antiche e nobili. Non solo vennero pubblicati “Historia dei Principi di Este” di Giovanni Battista Pigna nel 1570 e l’albero genealogico redatto da Girolamo Falletti nel 1581, ma le pareti del cortile nel Castello Estense vennero dipinte con circa duecento figure di membri della casata estense. Il cortile, invero, era già stato utilizzato come albero genealogico illustrato della dinastia da Ercole II, ma il Duca Alfonso volle rinnovare le caratterizzazioni dei personaggi e aumentare l’importanza della discendenza. Alfonso II commissionò questo grandioso ciclo pittorico verso il 1577 e il probabile autore fu Pirro Ligorio, già al servizio del Duca dal 1568: le figure erano dipinte in coppia (padre e figlio o fratelli) con i relativi stemmi. L’attribuzione del ciclo, come detto, è incerta, ma restano dell’impresa pittorica alcuni disegni preparatori, oggi dispersi in diverse collezioni europee: in Italia ne resta uno conservato presso gli Uffizi a Firenze, mentre la maggior parte sono al Ashmolean Museum di Oxford, altri al British Museum di Londra ed infine allo Staatliche Grafische Sammlung di Monaco. Presso la Pinacoteca di Ferrara, invece, sono conservati solo pochi lacerti di queste pitture, rendendo difficili ulteriori indagini sull’attribuzione. I disegni preparatori sono sicuramente di Pirro Ligorio, mentre per le pitture la ricerca documentale conduce al pittore ferrarese Ludovico Settevecchi, anche se le fonti settecentesche le attribuivano a Bartolomeo Faccini, in collaborazione con altri artisti.
BIBLIOGRAFIA:
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Atto del convegno “Ippolito II d’Este cardinale principe mecenate” a cura di Marina Cogotti e Francesco Paolo Fiore, De Luca Editori d’Arte;
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Enrica Domenicali “La Cappella Ducale del Castello Estense di Ferrara” in “I buoni studi Miscellanea in memoria di Mons. Giulio Zerbini” a cura di Alberto Andreoli, 2002;
“Le ceramiche dei Duchi d’Este. Dalla guardaroba al collezionismo” a cura di Filippo Trevisani, Federico Motta Editore, 2000;
Giuseppina Finno “Le donne e la musica nel periodo ferrarese di Carlo Gesualdo”;
Descrizione del banchetto nuziale per Alfonso 2. duca di Ferrara e Barbara principessa d’Austria preparato / Giacomo Grana; con un’appendice di una lettera sopra due piatti di maiolica dipinti di Giuseppe Boschini; [a cura dell’Accademia italiana della cucina delegazione di Ferrara; prefazione di Gianni Venturi]
Ferrara: S.A.T.E., 1985;
“L’impresa di Alfonso II. Saggi e documenti sulla produzione artistica a Ferrara nel secondo Cinquecento”, a cura di Jadranka Bentini e Luigi Spezzaferro, Nuova Alfa Editoriale, 1987.