“Vedi Leonello, e vedi il primo duce,
Fama de la sua età, l’inclito Borso,
Che siede in pace, e più trionfo adduce
Di quanti in altrui terre abbino corso.
Chiuderà Marte ove non veggia luce,
E stringerà al Furor le mani al dorso.
Di questo signor splendido ogni intento
Sarà che ’l popul suo viva contento.”
Orlando Furioso III canto, 45
Nonostante fosse un figlio illegittimo, nato dalla relazione tra il padre Niccolò III e Stella dei Tolomei dell’Assassino, Borso fu il primo Este ad essere elevato alla dignità di Duca, prima di Modena e Reggio dall’Imperatore Federico III, poi di Ferrara dal Pontefice Paolo II.
Il suo governo durò venti anni e si caratterizzò per il lungo periodo di pace che seppe mantenere grazie alle sue doti diplomatiche, portando grande prosperità nei territori governati. Oltre alla politica, si dedicò anche al miglioramento e ampliamento dei possedimenti: si impegnò soprattutto nella grandiosa opera di bonifica delle zone paludose del Polesine e all’interno della città operò allargando i confini di Ferrara a sud-est in quella che viene definita l’“Addizione Borsiana”.
Il fatto di essere un figlio illegittimo caratterizzò tutta la sua vita, improntata alla manifestazione continua delle proprie virtù e volta, quindi, a legittimare il proprio governo. Borso si riconosceva infatti nell’ideale cavalleresco, sia per affinità personali sia per creare una figura di sovrano autorevole in modo da regolarizzare un governo presieduto da un figlio illegittimo. Questo ideale, infatti, si manifestava attraverso la sua immagine che doveva impersonificare le virtù del buon governo: la giustizia, la devozione religiosa (si veda l’impresa personale del Battistero), la castità simboleggiata dall’unicorno, la generosità e tutte le altre qualità che il Sovrano doveva possedere per essere considerato tale. Al contrario di altri importanti membri della casata, per Borso anche le arti erano un mezzo per raggiungere tale scopo: la corte ducale, durante il suo governo, si caratterizzò infatti per la magnificenza, espressione e simbolo di potere.
La vita
Borso nacque il 24 agosto 1413 da Niccolò III d’Este e dalla sua amante Stella dei Tolomei dell’Assassino, terzogenito dopo Ugo (che finirà decapitato dal padre per la presunta relazione con la matrigna Parisina Malatesta) e Leonello. Un figlio illegittimo, ma non per questo trascurato da Niccolò, che era legato sinceramente alla madre Stella. Per Borso, invece, non fu così facile e quella “macchia” lo accompagnò tutta la vita. Ovviamente anche agli occhi delle altre corti italiane questa sua condizione originaria metteva in cattiva luce la casata, aprendo discussioni sulla presunta legittimità di governare e sulla sua stessa nobiltà. Per porre rimedio a una situazione che poteva minare la stabilità dello Stato, Borso scelse di non sposarsi mai e di non legittimare alcun figlio, lasciando così lo Stato in mano al fratellastro Ercole, figlio legittimo di Niccolò III.
Fin da piccolo, il padre lo indirizzò verso la carriera militare, e fu anche per questo che interruppe presto gli studi letterari (è infatti nota la sua difficoltà a leggere il latino). Venne mandato al servizio di Venezia con un corpo di cento ‘lance’, ma i primi anni sul campo di battaglia non portarono grosse soddisfazioni al giovane Borso.
Nel dicembre del 1441, alla morte di Niccolò III salì al potere Leonello, fratello di Borso: la successione fu legittimata dal testamento del padre, nonostante fossero già presenti altri due eredi legittimi, Ercole e Sigismondo, nati dal secondo matrimonio di Niccolò con Ricciarda da Saluzzo. Purtroppo per Borso non fu un passaggio positivo: i tanti anni trascorsi fuori dalla città di Ferrara non gli permisero di avere una parte della corte a suo favore, necessaria per ribaltare tale sorte. L’appoggio offerto al fratello durante la successione fu comunque ricompensato con possedimenti di terre e città. Fu anche inviato alla corte dei Visconti a Milano: qui fu ricevuto con onori e promesse di futuri domini, ma quando Borso si rese conto che ciò non sarebbe accaduto, nell’agosto del 1443 rientrò a Ferrara per risiedervi stabilmente.
La militanza negli eserciti milanesi fu però ben retribuita: Filippo Maria Visconti gli donò la città di Castelnuovo di Tortona (dal 1570 Castelnuovo di Scrivia, provincia di Alessandria). Questa città aveva una particolarità che la rendeva di grande valore economico: era uno dei centri di produzione di guado (o gualdo), conosciuto anche come “oro blu”. Il nome scientifico è Isatis tinctoria ed è una pianta molto preziosa: dalla lavorazione delle sue foglie si produce un pigmento in grado di tingere con efficacia le stoffe di un prezioso colore azzurro scuro e, con le opportune mescolanze, si può ottenere il porpora. Anche il colore rosso profondo, simbolo di giustizia, che contraddistinse Borso, era ottenuto su una base di guado. Grazie a questo prodotto Borso riuscì a mantenere per tutta la vita il potere sulla città attraverso una politica di accordi fiscali vantaggiosi per i sudditi e un incremento della produzione, tanto che dal 1452 vietò l’uso di panni lavorati fuori da Ferrara.
Dal suo rientro a Ferrara, si mise a servire il fratello e la città, diventando in breve tempo il consigliere più fidato di Leonello e ricoprendo importanti incarichi. Ben presto acquisì quella credibilità e influenza all’interno della corte che fino ad allora gli era stata negata. Attirando a sé molti sostenitori, alla morte improvvisa di Leonello, Borso poté salire al governo senza opposizioni dirette, se non quella, ormai antica, espressa dal testamento di suo padre Niccolò. Una prescrizione di cui il consiglio del Comune non tenne conto, eleggendo Borso all’unanimità. Poche settimane dopo anche il Pontefice Nicolò V ratificò l’accaduto, legittimando il governo di Borso e la successione ai suoi figli, o ai fratelli legittimi o legittimati.
La politica
La storiografia coeva a Borso e quella immediatamente successiva tracciano di lui una figura molto diversa da quella raccontata poi dagli storici del Novecento. Il governo di Borso, infatti, portò alla città di Ferrara un grande prestigio, un ampliamento dei confini e, come detto, un lungo periodo senza guerre che si concretizzò in una situazione di benessere diffuso. Gli storiografi più recenti, invece, hanno sottolineato come questa tranquillità fosse stata sostanzialmente un espediente per fare percepire Borso come principe buono e giusto, secondo i dettami del codice cavalleresco e del buon governo del tempo. Se da un lato questa affermazione può dirsi vera, riscontrabile anche nelle commissioni pubbliche più importanti, dall’altro è altrettanto vero che sotto Borso il territorio da lui governato visse un periodo di lunga prosperità economica e lui stesso fu il promotore di numerose e importanti opere pubbliche.
Inoltre, è indiscutibile il prestigio che Borso diede alla Casa d’Este: il suo primo e forse più grande successo fu infatti quello di ottenere dall’Imperatore Federico III, nel 1452, il titolo di Duca di Modena e Reggio, oltre che quello di Conte di Rovigo e di Comacchio e il riconoscimento dei territori conquistati da Niccolò III nella Garfagnana.
L’Imperatore, in viaggio verso Roma, fu ospite di Borso insieme a tutto il suo corteo (circa 2.000 uomini) e qui, per diversi giorni, fu intrattenuto con tornei e feste. Federico III fu ricevuto al confine dello Stato con l’offerta di cinquanta falconi addestrati alla caccia e quaranta splendidi corsieri, seguirono otto giorni di cerimonie in suo onore. L’accoglienza e i doni furono così sontuosi che l’Imperatore decise di fermarsi a Ferrara anche nel viaggio di ritorno. Così, ad inizio maggio, l’Imperatore fece nuovamente sosta in città e, grazie alla sfarzosa ospitalità, alle ricche cerimonie e all’intervento di Enea Silvio Piccolomini, Borso fu investito del titolo di Duca. Dopo giorni di festa allietati anche dal matrimonio di Bartolomeo Pendaglia e Margherita Costabili, finalmente il 18 maggio 1452, giorno dell’Ascensione, Federico III, dopo la solenne messa, elevò Borso a Duca di Modena e Reggio. La cerimonia avvenne all’aperto, su di un palco riccamente decorato, presso la Torre di Rigobello e si concluse nella Cattedrale, dove il Duca fece il giuramento di fedeltà. Nelle settimane a seguire, Borso visitò le città di Modena e di Reggio elevate al nuovo titolo ducale, che lo accolsero con grandi onori e gioia, stesso entusiasmo che accompagnava il suo transito anche nelle città più piccole.
Contrariamente a quanto auspicato, la nuova dignità non gli diede modo di inserirsi nei giochi di potere degli Stati italiani e le sue mire espansionistiche dovettero essere, per il momento, accantonate. Anche il tentativo di entrare nella Lega stipulata tra Milano, Venezia e Firenze nel settembre 1455, per mantenere la propria integrità territoriale, non portò a Borso i vantaggi sperati.
Nel frattempo la scacchiera italiana di alleanze si andava formando con Milano, Napoli e Firenze sempre più vicine e alleate a discapito di una Venezia isolata, a cui Borso decise invece di avvicinarsi. Intanto era salito al soglio pontificio Pio II: Enea Silvio Piccolomini era amico di Borso e questo avvenimento lo fece ben sperare di ottenere vantaggi politici e territoriali. Come aveva fatto per l’Imperatore, Borso ospitò nel 1459 il Pontefice di passaggio per i territori Estensi mentre era diretto a Mantova per incontrare i principi cristiani e sollecitare una nuova crociata contro i Turchi. Il Pontefice fu accolto con i più importanti onori, ma Borso non riuscì a convincerlo né della concessione del titolo Ducale per Ferrara, né dell’abolizione del censo annuo versato alla Camera Apostolica. Il diniego del Pontefice costrinse Borso ad assumere un atteggiamento più distaccato nei confronti della politica della Santa Sede. Anche per non guastare i rapporti con la Serenissima, la quale non aveva intenzione di partecipare alla crociata, Borso prese le distanze da operazioni verso l’Africa e verso l’Oriente, terre dove aveva lui stesso ottimi rapporti commerciali.
Questi riguardavano anche una delle più grandi passioni di Borso, quella legata ai cavalli. Attratto infatti dall’etica cavalleresca francese e da quel mondo cortese, si dedicò alle battute di caccia con i migliori cavalli, all’allevamento di cani come levrieri e bracchi, a quello dei falconi e all’organizzazione di tornei.
Più volte il Duca incaricò esponenti della sua famiglia e della corte di andare ad acquistare per suo conto animali in Inghilterra, Irlanda, Germania, Sicilia, fino a spingersi, appunto, anche in Africa. Il primo viaggio nel continente africano avvenne nel 1462, quando Borso inviò Rainaldo da Colle a Tunisi: tornò l’anno seguente con dieci barbareschi, due leoni, due struzzi, due cani e altre meraviglie provenienti da quelle terre lontane che incuriosivano il Duca. In quest’occasione il Re di Tunisi Abu Omar Othman mandò in dono a Borso un bellissimo cavallo e da qui iniziò lo scambio tra i due regnanti.
Poco dopo, nel 1464, salpò da Venezia un’altra ambasceria diretta a Tunisi con l’intento, questa volta, di acquistare cavalli da traino e da tiro. Borso, celebre per la generosità e lo sfarzo, inviò al Re ricchissimi doni secondo il costume italico e scrisse lui stesso una nota che conteneva anche precise istruzioni ai suoi inviati (“Instructione facta ai Nobili Scudieri de lo Illustrissimo Signore Duca di Modena etc, Gattamelata et Zoanne Iacomo da la Torre, per la loro andata in Barberia”). Nella lettera si trovano le raccomandazioni di Borso: non dare scandalo, comportarsi in modo onorevole, “lassare stare le femmine et ogni cossa lasciva”, fare attenzione che i vetri non si rompano, e altri consigli su come presentare i doni al cospetto del Re, seguendo una corretta gerarchia. Nell’elenco degli oggetti che Borso inviò al Re troviamo: mule con mantelli di seta ricamati, coltelli, vetri di Murano, cappelli di paglia, catene e collari per cani, formaggi, balestre, chitarrini, guanti da falcone, forbici di Modena, sedie in velluto ed altri raffinati oggetti.
Tornando alla situazione italiana, stante il fatto che la politica anti Sforzesca e Aragonese non stava portando i risultati sperati, dopo il 1468 Borso cercò strategicamente di stringere nuovamente un’alleanza con la Santa Sede, proponendosi lui stesso come intermediario tra Venezia e il Papa: riuscì in effetti a convincere la Serenissima a partecipare al fianco della Santa Sede alla guerra contro Rimini, relativa alla successione di Sigismondo Malatesta. Questo successo diplomatico diede a Borso una maggiore credibilità e forza, che lo portarono a impegnarsi, di nuovo, per spezzare l’alleanza sforzesco-aragonese. La rivalità con gli Sforza non era più soltanto di facciata e si fece sempre più forte, fino a sfociare in un piano criminale per uccidere Borso, quando il Duca Galeazzo Maria impedì la conquista di Imola e, in accordo con Piero de’ Medici, arrivò ad architettare la congiura dei Pio di Carpi.
La congiura contro Borso prese vita nella città di Carpi dove i fratelli Pio governavano insieme la città, ma i loro figli avevano idee diverse sulle alleanze da seguire: chi parteggiava per Milano e Firenze e chi per Borso. Su queste divergenze fecero leva Galeazzo Maria e Piero de’ Medici per pianificare l’omicidio di Borso, appoggiando la salita al potere del fratello Ercole. Quest’ultimo, però, non si fece corrompere dalle promesse offerte e raccontò l’accaduto a Borso, il quale fece decapitare uno dei Pio, arrestare i congiurati e gli altri fratelli, anche quelli ignari del complotto.
Nel frattempo, grazie all’ultima strategica alleanza con la Santa Sede, anche l’altro grande obiettivo di Borso – il titolo di Duca di Ferrara – arrivò a compimento. L’investitura giunse solo nel 1471, l’anno della sua morte, per mano del Pontefice Paolo II, al secolo Pietro Barbo, che vedeva in questo territorio un prezioso alleato contro le mire espansionistiche di Venezia e, al contempo, un ancora più devoto sostenitore della Chiesa. La cerimonia si celebrò a Roma il 14 aprile 1471, giorno di Pasqua: Borso arrivò nella città eterna con un corteo degno di un re e qui vi restò per quasi un mese, tra grandiosi festeggiamenti. Va sottolineato che il Duca volle portare con sé la sua famosa Bibbia, per ostentare la propria magnificenza e per mostrare la potenza e la ricchezza a cui era giunto durante il proprio regno.
Morì poco dopo il ritorno a Ferrara, ritiratosi prima a Belfiore e poi a Castelvecchio, dove si spense il 19 agosto 1471. Come predisposto fin dal 1461, gli successe il fratello Ercole che, dopo la congiura dei Pio, presiedeva già da tempo con Borso il consiglio segreto.
Le sue esequie tracciano l’ultimo legame con il mondo cortigiano francese e le sue simbologie, che tanto furono presenti alla corte di Borso. Il funerale fu un evento spettacolare: oltre al fasto legato alla dignità di sovrano fu imposto al corteo funebre il “gran lutto alla borgognona”. Questo abbigliamento prevedeva una tonaca con lungo strascico e un ampio cappuccio calato sugli occhi, tutto rigorosamente di colore nero. Infine, come da usanza di tradizione cavalleresca, il cuore e l’intestino di Borso furono deposti in una colonna della chiesa di San Paolo, mentre il corpo fu sepolto alla Certosa. Dopo il terremoto del 1570 e la conseguente ricostruzione della chiesa, della colonna non è rimasta traccia.
Un periodo di splendore: le iniziative di Borso
Tra le attività svolte a favore di tutta la popolazione dal primo Duca, bisogna innanzitutto ricordare la bonifica delle paludi, soprattutto nell’area del Polesine: da zone malsane e inutilizzabili, Borso restituì nuovi spazi fertili da coltivare. L’importanza di questa attività è ancora più evidente nella lettura delle imprese personali di Borso riportate in molte opere d’arte, tra cui spiccano per numero e importanza quelle legate proprio al tema della bonifica: l’unicorno che immerge il suo corno purificatore nelle acque; il paraduro e la siepe, entrambi simboli della protezione delle campagne dalle piene del fiume che divengono, in una visione più ampia, simboli dell’azione protettiva del Duca nei riguardi della sua città e del popolo.
Borso fu anche il promotore di una lungimirante impresa urbanistica, iniziata nel 1451, che prese poi il nome di “Seconda Addizione” o “Addizione Borsiana”, forse meno importante della successiva attuata da Ercole I e per questo probabilmente passata in secondo piano. Borso allargò i confini di Ferrara a sud-est, trasformando un greto del Po in via della Ghiara, comprendendo così l’isola di Sant’Antonio in Polesine e tracciando uno dei primi rettilinei rinascimentali. Inoltre, a Borso si deve l’ampliamento e l’ornamento di numerosi edifici dalle Delizie Estensi di Belriguardo e di Belfiore, di Palazzo Schifanoia e Palazzo Paradiso, infine la conclusione del campanile della Cattedrale.
Anche l’Università conobbe un periodo di vigore grazie a Borso e proprio in questi anni fu finanziata direttamente dalla Camera Ducale.
Borso e l’arte un binomio dibattuto
L’immagine di Borso che ci è stata tramandata è quella di un uomo di un livello culturale modesto: non fu un fine letterato e probabilmente possedeva solo le basi della lingua latina, preferiva leggere in francese o in volgare, ma non per questo fu lontano dalle arti, dalla letteratura e dalla bellezza. È opportuno ricordare che il padre di Borso scelse per lui la carriera militare e quindi, contrariamente a chi restava a Corte, gli studi furono forzatamente interrotti.
Borso utilizzò l’arte come strumento: nelle sue grandi imprese artistiche, come il ciclo di affreschi di Schifanoia o la Bibbia istoriata, l’opera d’arte serviva per mostrare e dichiarare un valore, una caratteristica, un proposito e perciò il risultato era più importante dell’aspetto intellettuale. Contrariamente a quanto era solito accadere, Borso non trascorreva il tempo a disquisire con letterati e pittori sul tema da rappresentare, per questo probabilmente Borso è stato spesso ritenuto poco esperto d’arte.
Anche la sua immagine pubblica era votata a questi fini, per questo fu completamente diversa da quella del suo predecessore Leonello: il tratto distintivo della sua figura di principe fu la magnificenza. Anche la sua eccentricità nel vestire attirava la curiosità dei contemporanei: indossava vesti di broccato e gioielli appariscenti, non solo all’interno della corte o in occasioni speciali, ma sempre, perfino nelle uscite in campagna. L’idea di magnificenza inseguita da Borso fu alla base della sua commissione più celebre, la “Bibbia di Borso”, uno splendido codice miniato di una grande ricercatezza formale e stilistica e dall’enorme costo di realizzazione.
Le due opere che invece evidenziano maggiormente il legame tra la politica di Borso e l’arte, sono il monumento a lui dedicato e gli affreschi del palazzo di Schifanoia.
Il monumento fu affidato a Nicolò Baroncelli e concluso nel 1454. Inizialmente fu posto davanti alla residenza del podestà, per volere del popolo e in segno di gratitudine verso Borso raffigurato seduto mentre amministra la giustizia, con in mano il bastone del comando e sul capo la berretta imperiale. Ai lati, aggiunti in un secondo momento, si trovano disposti quattro fanciulli che reggono ciascuno uno scudo con le insegne Estensi. Il monumento si conclude con una iscrizione che rende note le ragioni di tale opera: Borso è diventato Duca di Modena e Reggio e sotto il suo governo sono stati anni di pace, venendo per questo definito signore “giustissimo”. Alla morte di Borso, la statua venne spostata nella collocazione attuale – a lato dell’ingresso su piazza del Municipio – anche se oggi possiamo ammirare solo una copia dell’originale, che andò distrutta nel 1796.
La giustizia fu infatti la virtù con la quale il primo Duca cercò continuamente di identificarsi: oltre al monumento appena citato, la raffigurazione di Borso mentre amministra la giustizia si trova anche nel Salone dei Mesi a Schifanoia.
Qui, i soggetti scelti per gli affreschi mostrano le virtù del sovrano con un linguaggio grandioso e trionfale. Dopo l’ampliamento del Palazzo, dal 1469 in poi, Borso si dedicò alla decorazione della sala più grande, convocando un folto gruppo di artisti a lavorarci: Pellegrino Prisciani è riconosciuto come l’autore del programma iconografico, mentre i pittori impegnati in questo ciclo furono Francesco del Cossa, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza e un ancora non identificato “Maestro dagli occhi spalancati”, oltre a un numero non definito di aiuti e garzoni. Il ciclo pittorico è suddiviso in dodici sezioni che rappresentano i mesi dell’anno, la lettura di ogni singolo mese procede dall’alto verso il basso ed è suddivisa in tre fasce. La prima è dedicata al mondo divino attraverso la raffigurazione della divinità protettrice del mese in trionfo, la successiva presenta il segno zodiacale di riferimento e i decani, mentre nell’ultima fascia sono rappresentate scene del mondo terreno di vita cortigiana incentrate sulla figura di Borso e sul trionfo delle sue virtù. Le paraste che separano le scene creano l’illusione di spazio chiuso affacciato sulle scene della vita quotidiana, sotto il governo di Borso.
Molto interessante è un particolare del mese di marzo, dipinto da Francesco del Cossa. In questa porzione Borso è raffigurato a cavallo, di profilo, attorniato dal suo seguito di cavalieri e cani da caccia. La figura sulla destra di Borso è stata riconosciuta in Teofilo Calcagnini “compagno del Duca”, titolo che lo designava come vero ufficio pubblico, ovviamente retribuito, che riguardava le situazioni della vita privata del sovrano, dai ricevimenti alle feste fino alle cerimonie. I due avevano moltissimi interessi comuni e la predilezione di Borso per Teofilo fu resa ancora più evidente dalle generosissime donazioni che gli elargì nel corso del tempo: la maggiore di queste avvenne il 25 dicembre del 1464, durante la solenne messa di Natale, quando Borso lo nominò cavaliere aurato e lo investì del castello di Cavriago nel Reggiano, di quello di Maranello nel Modenese e di quello di Fusignano in Romagna.
Oggi possiamo ammirare sette dei dodici mesi affrescati, quelli da marzo a settembre.
Borso, anche se non fu un amante e uno studioso delle lettere, possedeva testi anche in francese e sotto il suo governo si vide l’affermazione della lingua volgare e di quella cultura cortigiana che sarà alla base del futuro Ducato. Di certo non cessarono gli studi umanistici a Ferrara, incentrati attorno alla figura di Guarino Veronese, che continuò sulla scia dei suoi predecessori la cura della biblioteca. I testi che più interessavano Borso, di gusto tardo medioevale e protoumanistico, andarono a incrementare la biblioteca all’interno della torre del Castello Estense, andata quasi completamente distrutta a causa di un incendio. Il sovrano pensò ad una nuova organizzazione della stessa e, fatto molto importante, concepì la biblioteca come spazio aperto in cui i testi circolavano liberamente tra i professori dello Stato e nella corte. Borso probabilmente non aveva una cultura pari alla dignità dei suoi titoli, ma era molto attento al bello, per questo i testi erano rilegati con cura e con materiali preziosi. È vero che in questi anni si ebbe la fioritura della miniatura, di cui l’opera maggiore è stata la Bibbia già ampiamente citata, ma meritano una menzione anche i libri di culto della Certosa di Ferrara, sempre commissionati da Borso.
Se la pittura e gli studi umanistici non sono stati approfonditi nella stessa maniera da Borso, non fu così per le arti minori. La sua predilezione per il fasto, infatti, portò nuovo impulso non solo alla miniatura, ma si sviluppò la tessitura, si ebbe maggiore raffinatezza negli arazzi, nelle medaglie, nell’intaglio, nell’arte delle scenografie per creare ambienti stupefacenti durante le cerimonie e gli eventi pubblici.
Artisti a corte
Diversamente da quanto accadeva solitamente a Corte, il rapporto di Borso con gli artisti non si incentrò su affinità culturali o su scambi intellettuali, ma fu semplicemente finalizzato alla realizzazione delle opere da lui commissionate.
Non a caso, nei primi anni del ducato di Borso vari artisti lasciarono Ferrara, alla ricerca di corti più interessate al lavoro dei pittori, già penalizzati in quegli anni dalla moda che prediligeva grandi arazzi istoriati alle pareti, e che, quantomeno, limitava le loro occasioni di dipingere. D’altro canto, la precedente corte di Leonello fu invece molto frequentata da artisti e questo non pesò poco sull’economia del Marchesato: probabilmente Borso cercò di diminuire il numero di pittori a corte anche per questo, puntando semmai sulle arti minori che conobbero con lui un periodo di forte sviluppo.
Di seguito, alcuni dei più importanti artisti alla corte di Borso d’Este. Cosmè Tura (1430-1495 ca) fu un poliedrico artista attivo alla corte di Ferrara dopo il 1456. Dapprima lavorò come progettista di cartoni per arazzi, poi sostituì Maccagnino come pittore dello Studiolo modificando il progetto originario e successe ad Angelo da Siena come pittore ufficiale della corte di Borso. Alla morte di Borso, nel 1471, Tura perse il suo ruolo centrale alla corte, anche a causa del rientro in città nel 1469 di Baldassare d’Este a cui fu conferito il ruolo di ritrattista ufficiale. Tura sarà ancora impegnato da Ercole I ma in lavori di minore importanza, tanto da rivolgersi in seguito ad una committenza religiosa.
Baldassare d’Este (o Baldassare di Regio morto nel 1441), fratellastro di Borso, nacque a Reggio e prestò servizio come pittore alla corte milanese fino al 1469, quando rientrò a Ferrara vivamente raccomandato da Galeazzo Maria Sforza. Si impose fin da subito come ritrattista ufficiale di corte. Purtroppo restano pochi dipinti di sua mano: da ricordare il “Ritratto di Borso d’Este” del 1469-71 ora a Milano al Castello Sforzesco. La sua opera più grande (oggi andata perduta) fu una tela terminata dopo il 1473, in cui erano rappresentati il duca, Alberto d’Este, Lorenzo Strozzi e Teofilo Calcagnini, tutti a cavallo: la rappresentazione voleva esaltare l’amicizia cortigiana che legava questi personaggi. Continuò il suo lavoro a corte anche sotto il Duca Ercole I, fino al 1504 anno della sua morte. Per un periodo fu nominato governatore di Castel Tedaldo, l’importante città di produzione di “oro blu” (Isatis tinctoria, volgarmente “guado”).
Anche Francesco del Cossa (1436-1478 ca) fu un artista di corte: si formò sulla pittura del Tura e sul tardo gotico ferrarese, fece parte del folto gruppo di artisti impegnati nell’ambiziosa impresa del Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia. La sua mano è stata riconosciuta nella parete est, quella con i mesi di marzo, aprile e maggio.
A seguito di un probabile contrasto su questioni economiche, scrisse una lettera a Borso datata 1470 in cui sollecitò un cospicuo pagamento per aver dipinto una parete di Schifanoia e lamentò il trattamento riservatogli da Pellegrino Prisciani, il quale lo trattava alla stregua di un semplice garzone. La lettera cadde dimenticata da Borso e il Cossa decise di trasferirsi nella vicina Bologna, alla corte dei Bentivoglio. Questa vicenda spesso viene usata per etichettare negativamente il Duca come mecenate e avvalorare la tesi secondo la quale non fosse un intenditore d’arte. Come già accennato, l’arte era considerata da Borso come uno strumento politico, soprattutto nel caso di Schifanoia. Inoltre, non va dimenticato che nel Quattrocento i pittori erano considerati semplici artigiani, mentre figure di letterati e astrologi come Pellegrino Prisciani godevano di un’alta considerazione e appartenevano a un rango superiore.
Piero della Francesca (1406 o 1412-1492), già pittore affermato, venne chiamato a dipingere a Ferrara verso il 1450, ma degli affreschi compiuti in Castelvecchio non restano tracce a causa dell’ampliamento del palazzo voluto da Ercole I.
Nella letteratura una menzione speciale va a Matteo Maria Boiardo (1441-1494), che dal 1461 si trasferì alla corte di Borso e dieci anni dopo lo accompagnò a Roma per ricevere il titolo ducale. Si occupò di tradurre opere greche e latine, compose testi poetici in latino e volgare. Prestò servizio anche sotto Ercole I, a cui dedicò il suo più grande componimento, il celebre “Orlando innamorato”.
In quel tempo si trovava a servizio della corte anche il poeta Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505), zio del Boiardo. Egli ricoprì importanti incarichi a Ferrara, tra cui governatore di Rovigo e del Polesine, nonché Giudice dei Savi (incarichi che proseguirono anche sotto Ercole I). Inoltre, scrisse libri in latino e sonetti in volgare: da ricordare il poema epico “Borsiade” dedicato proprio a Borso.
Appena salito al potere dopo la successione al fratello Leonello, Borso fu anche committente di un esemplare della “Vitae XII Caesarum” di Svetonio: il manoscritto si presentava come opera perfetta per dare prestigio al nuovo principe attraverso le memorie degli antichi Cesari. La scrittura fu affidata a Giovanni da Magonza, mentre la miniatura a Marco dell’Avogaro: l’opera può dirsi conclusa tra il 1452 e l’anno successivo.
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