La vita di Alfonso III d’Este rappresenta una pagina singolare nella storia di Casa d’Este. La sua vicenda è fortemente condizionata dal personale rapporto con la religione e il potere, che lo porterà, attraverso varie fasi, a un radicale cambiamento di vita: dell’intransigenza e arroganza di giovane principe, alla lungimiranza del ruolo di Duca, per un brevissimo periodo, fino ad abbracciare l’opera caritatevole dei frati Cappuccini a cui si dedicò fino alla morte.
La vita
Alfonso III è l’ultimo Duca Estense a nascere a Ferrara, il 22 ottobre 1591, da Cesare d’Este e Virginia de’ Medici, figlia del Granduca di Toscana, Cosimo I. La sua infanzia di nobile principe era trascorsa serena fino alla Devoluzione di Ferrara quando suo malgrado, fu coinvolto nella dipartita degli Este dalla loro capitale. Il piccolo Alfonso, di solo sette anni, fu infatti richiesto come ostaggio durante le trattative per la cessione del territorio ferrarese al Papato, e quindi trattenuto fino al completo trasferimento della corte a Modena. Anche se la “prigionia” fu comunque breve, lasciò in lui un segno profondo soprattutto per il fatto che non avrebbe più rivisto la sua città e i palazzi in cui era cresciuto, mentre avrebbe potuto riabbracciare i genitori a Modena, una città a lui sconosciuta, ora nuova capitale del Ducato. Questi fatti potrebbero aver influito sulla sensibilità e le sue attitudini, già evidenti fin d’allora: dopo il trasferimento, infatti, Alfonso continuò la formazione sostenuta da valenti precettori, mostrandosi particolarmente predisposto verso lo studio delle materie classiche e della religione.
Suo padre, il Duca Cesare, sapeva bene quanto i legami matrimoniali fossero pedine importanti da muovere con attenzione sullo scacchiere delle alleanze politiche, ed è per questo che scelse per il figlio l’unione con il Ducato di Savoia. In un primo momento si pensò che la sposa potesse essere la figlia primogenita di Carlo Emanuele di Savoia, Margherita, ma la trattativa non ebbe seguito. Il 13 marzo 1608 a Torino, Alfonso sposò, quindi, Isabella di Savoia, nello stesso giorno in cui si tennero anche le nozze della sorella Margherita con il principe di Mantova, Francesco Gonzaga. Il matrimonio di Alfonso e Isabella fu ricco di affetto e la coppia ebbe ben quattordici figli. L’anno seguente al matrimonio nacque il primo figlio, Cesare, che sfortunatamente morì prematuramente, mentre l’erede al trono, il futuro Francesco I, vide la luce il 5 settembre 1610. Non fu solo la famiglia a impegnare il giovane Alfonso: pochi anni dopo la Devoluzione, i Lucchesi, credendo di poter far leva sul periodo di fragilità del potere degli Este, avviarono una serie di incursioni nei territori estensi della Garfagnana, di cui da tempo volevano tornare in possesso. Per arginare questo pericolo, nel 1613 Alfonso fu inviato insieme al fratello Luigi a fronteggiare i nemici, la battaglia fu vinta dagli estensi, che riuscirono così a mantenere i loro territori.
Il lato oscuro di Alfonso
Alcuni anni dopo il matrimonio, il principe iniziò a mostrare una forte smania di potere che lo rendeva insofferente verso le regole. Ritenendosi ormai in grado di prendere in libertà e autonomia le proprie decisioni, Alfonso allontanò il suo mentore Ludovico Ronchi, mostrandosi inquieto ma risoluto nel trattare le questioni del Ducato, anche arrivando a criticare le scelte del padre. In questi anni travagliati, vissuti vicino a compagnie discutibili, anche la sua pratica religiosa fu messa da parte: i richiami al dovere restavano inascoltati mentre la superbia lo spingeva ad individuare nuovi nemici su cui far esplodere la propria incontrollabile collera.
L’episodio che segnò la caduta morale di Alfonso fu una questione con la famiglia Pepoli. In quel periodo si estinse senza eredi la nobile famiglia dei Contrari e, secondo la famiglia Pepoli, alcuni dei loro beni in territorio ferrarese sarebbero dovuti passare in proprietà al Conte Ercole Pepoli, la cui madre era una Contrari. Alfonso non era dello stesso parere e convinse il padre a non concedere quei beni ad Ercole Pepoli. La controversia continuò con toni sempre più duri, senza che le due parti trovassero alcuna possibilità di accordo. Alfonso, ormai accecato dalla rabbia, prese in considerazione la soluzione più crudele e una sera di dicembre del 1617 avvenne l’irreparabile: il Conte Pepoli venne ucciso da tre sicari all’uscita da una festa e, seppur senza prove, il mandante fu ritenuto Alfonso. La famiglia Pepoli gli giurò vendetta, attese il momento giusto e due anni dopo attentò in diverse occasioni alla vita di Alfonso: una volta fu accerchiato mentre era a caccia vicino ai loro possedimenti, ma riuscì a fuggire; un’altra occasione mancata fu invece a Modena tra la folla cittadina durante dei festeggiamenti. I tentati omicidi nei confronti del figlio primogenito del Duca Cesare non potevano però restare impuniti, cosicché nel 1621 il tribunale condannò per questi episodi Filippo, Cornelio e Ugo Pepoli, oltre a Tommaso degli Obizzi e una trentina di altri complici. Ma gli esponenti delle famiglie più importanti della città non furono però mai trovati dalla giustizia, così per placare la sete di vendetta del futuro Duca furono condannati alla pena capitale solo tre complici minori.
Questa fu la pagina più nera della vita di Alfonso, culmine oscuro di un periodo ben preciso, tra i venti e i trentacinque anni, in cui era stato sopraffatto dalla superbia e dalla presunzione, schiacciato da cattive frequentazioni e accecato dalla rabbia. Il cambiamento, però, era dietro l’angolo e sarebbe stato travolgente.
La riconversione
Dopo il parto della figlia Anna Beatrice, Isabella, moglie molto amata da Alfonso, benvoluta dal Duca Cesare e dal popolo, accusò una febbre molto alta che ben presto si rivelò sintomo di una grave malattia. Le informazioni sulle sue critiche condizioni di salute si sparsero velocemente nel Ducato e la comunità si strinse nella preghiera. Sul letto di morte, Isabella, che nutriva un forte sentimento religioso, esortò il marito ad abbandonare l’odio verso i suoi nemici e a riabbracciare la fede cristiana. In quel momento, al capezzale della moglie, Alfonso sentì la necessità di avere accanto a sé non solo un amico fidato, ma anche il proprio padre spirituale, Padre Giovanni Albinelli da Sestola. Il cappuccino si strinse attorno alla coppia e Alfonso, spronato dalle parole piene d’amore e di fede della moglie, fu pronto alla confessione e al perdono. Nel colmo del dolore, Alfonso seppe riabbracciare la fede cristiana che da tempo aveva accantonata, permettendo così ad Isabella di spegnersi serenamente, il 22 agosto 1626, sapendo che il suo ultimo atto d’amore fu quello di avere riavvicinato il marito a Dio. Il suo ultimo desiderio fu di essere accompagnata nella sepoltura dall’ordine dei Cappuccini e di indossare il loro saio.
L’intera città di Modena, tanto era l’affetto per la nobildonna, pianse la prematura scomparsa di Isabella, ma fu soprattutto Alfonso ad essere distrutto dal dispiacere. E fu in quel preciso momento che prese corpo nel suo animo l’idea di intraprendere la vita conventuale ma, seguendo i consigli spirituali di alcuni religiosi, si convinse a riflettere e aspettare prudentemente qualche tempo. L’attesa era legata al suo status di principe e di prossimo Duca: il padre Cesare era ormai molto anziano e aveva bisogno dell’aiuto del figlio nel governare; mentre Francesco, figlio primogenito di Alfonso, era ancora troppo giovane per sostenere da solo la responsabilità di amministrare lo Stato.
La breve parentesi da Duca
Cesare d’Este è passato alla storia come il Duca della Devoluzione, costretto ad abbandonare Ferrara e a trasformare Modena nella nuova capitale, dove morì l’11 dicembre 1628 dopo trenta anni di governo. Il principe Alfonso si trovava convalescente a Sassuolo e fu avvisato della scomparsa del padre durante la notte. Il mattino seguente rientrò a Modena e subito diede avvio alle formalità imposte dalla successione: ambascerie, udienze pubbliche e private, l’organizzazione e la celebrazione del funerale.
A partire da quel momento, al nuovo Duca furono sufficienti poco più di sei mesi per mettere ordine negli affari di Stato e creare un ambiente favorevole alla sua abdicazione in favore del figlio. Così, il 21 giugno 1629, Alfonso III ufficializzò la decisione di entrare nell’Ordine dei frati Cappuccini, dandone notizia ai suoi referenti spirituali, tra cui Padre Giovanni da Sestola. Per portare a termine in riservatezza alcune decisioni si ritirò subito a Sassuolo, lasciando la complessa gestione del Ducato in mano al giovane principe Francesco.
Da tempo il Duca aveva intrapreso una corrispondenza privata con la Curia dei Cappuccini e con la Santa Sede per esprimere le proprie posizioni e volontà. A seguito di tale comunicazione epistolare il ministro provinciale dei Cappuccini fu convocato a Sassuolo per approfondire la situazione, quanto mai curiosa e insolita, portando così a compimento la vocazione spirituale di Alfonso. Padre Feliciano da Piacenza rimase sorpreso dalla determinazione del Duca, ma non per questo tralasciò di illustrare le fatiche e la povertà imposte dalla vita conventuale, come vestire solo il saio e i sandali o il dormire su di un pagliericcio in una cella piccola e fredda. Nessuno di questi “sacrifici” intaccò la ferrea volontà del Duca di vestire i panni religiosi.
La lettera ufficiale del Pontefice Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini, giunse a Sassuolo il 24 luglio 1629, accogliendo la richiesta di Alfonso III di entrare nell’Ordine dei Cappuccini. Nella missiva venivano concessi alcuni privilegi tra cui la possibilità di scegliersi autonomamente il convento dove risiedere in Germania e di poterlo raggiungere con cavalli e carrozze, il procedere alla professione dei voti senza l’obbligo del noviziato canonico e la scelta di Padre Giovanni da Sestola come suo confessore permanente. Del resto, lo stesso Urbano VIII fu colpito personalmente dalla vicenda e usò queste parole per descrivere Alfonso: “Ecco un Duca che col disprezzo delle grandezze, ci insegna la moderazione nel sublime grado cui Dio ci ha collocati”.
Risolte le questioni religiose, mancava solo l’atto di abdicazione. Fu così che alla presenza del cancelliere ducale fece redigere il proprio testamento: lasciò cospicue somme di denaro in beneficenza, per aiutare gli indigenti, le giovani fanciulle ospitate nella “Casa delle Preservate” da lui istituita ed infine il notaio prese atto delle volontà del Duca e stipulò l’atto di donazione del Ducato al figlio Francesco. Alfonso scelse di informare i sudditi del Ducato attraverso due lettere distinte indirizzate alle città di Modena e di Reggio, in cui spiegava il proprio gesto e la forza del proprio sentimento religioso.
La nuova vita: Padre Giambattista da Modena
Pochi giorni dopo l’arrivo della lettera del Pontefice, sistemate le questioni politiche, Alfonso partì per il convento di Merano, trovando ristoro lungo il viaggio in altri conventi cappuccini. Giunto a destinazione alla fine di agosto, iniziò a pregare e a prepararsi in vista della cerimonia prevista per l’8 settembre, giorno della Natività della Vergine, durante la quale avrebbe potuto spogliarsi dei preziosi abiti da nobile per vestire il ruvido saio da cappuccino, entrando finalmente, di fatto, nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini con il nome di Padre Giambattista da Modena. Grazie alla personale propensione per la dialettica e per l’orazione e agli studi intrapresi da principe, fu promosso al sacerdozio entro la fine di quello stesso anno e destinato alla predicazione, alla cui pratica era particolarmente portato.
La peste del 1630 portò Padre Giambattista a far ritorno nei suoi territori per dare aiuto agli ammalati, ma il viaggio ebbe un epilogo ben diverso dalle sue aspettative: giunto alle porte di Modena dopo un lunghissimo cammino a piedi e ostacolato da numerose difficoltà, si vide negare dal figlio il permesso di entrare nel Ducato. Francesco I aveva lasciato la città a causa della peste, rifugiandosi in una residenza nella campagna di Reggio e per questo temeva il carisma del padre, che sarebbe entrato in una capitale di fatto abbandonata dal Duca. Appresa tale decisione, il Padre generale dell’Ordine gli impose di tornare in Tirolo e Padre Giambattista obbedì. Durante il viaggio, però, si fermò lungamente a Trieste e a Gorizia, dove fonderà anche un monastero per le Clarisse, e solo nel giugno del 1631 riprese la strada per Innsbruck, in Austria.
Il ritorno in Italia
Dopo alcuni anni passati tra Innsbruck e Vienna, Padre Giambattista venne richiamato in Italia e nell’ottobre del 1632 entrò a Modena in incognito per rifugiarsi nel convento dei Cappuccini. La notizia fece immediatamente il giro della città e il mattino seguente i figli, i nipoti e i fratelli furono tutti lieti di riabbracciarlo, seguiti anche da alcuni nobili e cortigiani accorsi per salutare l’ex Duca. L’aspetto di Alfonso era ben diverso da quello che ricordavano: dimenticati gli abiti regali, i gioielli, il carattere temibile e l’intransigenza, si trovavano dinanzi un frate vestito di un consunto saio e di sandali, i folti capelli avevano lasciato spazio alla chierica e i suoi occhi offrivano un nuovo sguardo, pieno di compassione e di benevolenza.
Il 29 gennaio 1633 è una data che tutti gli storiografi modenesi avrebbero ricordato per sempre, quando Padre Giambattista tenne la prima predica dal pulpito di una Cattedrale affollata, in cui esortò tutti all’elemosina e alla carità. Il suo impegno per i bisognosi della città di Modena fu encomiabile: le richieste di aiuto che raccoglieva venivano indirizzate al figlio Francesco che provvedeva al sostentamento di molti indigenti e talvolta erano inoltrate anche ad altri sovrani, a nobili e cardinali. Tra le sue missioni apostoliche, però, ce ne fu una che lo coinvolse maggiormente: l’impegno nella conversione delle donne di malavita, per le quali fece riaprire la “Casa del Soccorso”, dove potevano trovare sostegno e un rifugio sicuro.
Padre Giambattista predicò spesso anche a Reggio, dove giunse la prima volta nel giugno del 1633 e dove era solito fermarsi per alcune settimane, impegnato in missioni caritatevoli. Il grande seguito di fedeli proseguì anche nelle città di Guastalla, Finale, Scandiano e Nonantola sino a giungere nella Garfagnana. Nella quiete della montagna e immerso nella natura, Padre Giambattista ritrovava la pace e la serenità: per questo motivo scelse Castelnuovo di Garfagnana come luogo per edificare il suo convento, lo stesso dove trascorrerà gli ultimi anni della propria vita. La costruzione iniziò nell’ottobre del 1635, e l’anno seguente prese avvio quella della chiesa. Dopo quattro anni, durante l’estate del 1639, Padre Giambattista decise di trasferirsi nel monastero, anche se i lavori non erano ancora conclusi. In questo luogo l’ex Duca trovò la pace spirituale che cercava, continuando nella predicazione della parola di Cristo e nelle missioni a favore dei più bisognosi. Lasciò il convento solo in poche occasioni, per recarsi a Modena e Reggio, ma con l’avanzare dell’età i lunghi tratti a piedi e le avversità degli Appennini furono sempre più difficoltosi da sostenere e gli spostamenti si ridussero fino ad esaurirsi del tutto.
Nel maggio del 1644 fu assalito dalla febbre e le sue condizioni di salute apparirono subito gravi. Fece appena in tempo a salutare Padre Giovanni da Sestola, amico e guida spirituale che aveva saputo stargli accanto tutta la vita, poi il 24 maggio morì in convento tra l’amore e la preghiera dei confratelli.
Seguendo la sua volontà fu sepolto nella cripta della Chiesa dei Cappuccini di Castelnuovo. Nel corso della prima metà dell’Ottocento, però, le spoglie del frate subirono più trasferimenti: il primo, verso il 1806, quando, in seguito all’invasione francese, si temeva una violazione della sepoltura; successivamente, su disposizione di Francesco IV, furono collocate nella Chiesa di San Pietro a Castelnuovo. Solo nel 1823 le spoglie tornarono nel luogo prescelto da Alfonso dove ancora oggi si trovano, sotto l’altare dell’Immacolata nella Chiesa dei Cappuccini.
Due ritratti a confronto: il Principe e il Frate
Quando Alfonso rientrò a Modena nel 1632, in un primo momento familiari e cortigiani stentarono a riconoscerlo, sorpresi dalla trasformazione del suo aspetto. Lo ricordavano con abiti meravigliosi impreziositi da tessuti di seta e velluto, indossando gioielli costosi, con folti capelli fino alle spalle, impegnato tra battute di caccia e momenti di ozio, trascorsi tra musica e letteratura. La sua immagine rispecchiava quella ritratta da Sante Peranda verso il 1613-1614, in cui il giovane Principe appare altero, vestito con splendidi abiti ricamati d’oro e un’importante gorgiera. Nel dipinto sono presenti altri attributi che richiamano la sua nobiltà e il potere, come la spada su cui poggia la mano, l’elmo piumato posto sul tavolo e la presenza del cane da caccia che vuole alludere alla sua passione per l’attività venatoria. La scena appare luminosa e spensierata, la parete di fondo si apre su una finestra che lascia intravedere una lussureggiante vegetazione e una probabile scena di caccia. L’opera è un bell’esempio di ritratto principesco di inizio Seicento, il cui fine era quello di rendere facilmente riconoscibile la regalità e il potere del personaggio raffigurato.
Il dipinto eseguito da Matteo Loves poco più di venti anni dopo, ci restituisce un’immagine completamente diversa: Alfonso è rappresentato con il saio francescano e i capelli tagliati a chierica, mentre tiene saldo un crocifisso indicandolo con la mano destra. Attorno a lui sono rappresentati molti oggetti, emblemi del potere e dei piaceri terreni, lasciati da Alfonso in favore della fede religiosa, un atto simbolicamente raffigurato nel gesto di calpestare il bastone del potere, posto in terra, accanto alla corona. Sempre sparsi sul terreno o accatastati alle spalle di Padre Giambattista si possono individuare due gruppi di oggetti: sulla sinistra quelli che alludono al potere e al combattimento come la corazza, lo stendardo che lascia intravedere la bocca di un cannone e la testa di destriero. Dalla parte opposta sono ammassati le cose che identificano i piaceri e gli ozi della corte tra cui un violino, un clavicembalo, spartiti musicali e libri, una sfera armillare e in primo piano un cane assopito a rappresentare la passione dimenticata per la caccia. A questa moltitudine di oggetti della vita terrena sono messi in contrapposizione quelli religiosi, simbolo di una esistenza spirituale, posti ordinatamente sul tavolo di legno addossato alla parete, un testo sacro, un teschio e una clessidra, a ricordare il memento mori. Sopra di questi è dipinto un foglietto che riporta la scritta “Aetatis suae anno XXXXIV Religionis VI anno Do. 1635 Octo”. La simbologia cristiana è nuovamente presente nella parte superiore sinistra della tela, tra le nubi rossastre che riempiono il cielo volano una colomba, emblema della purezza, e un pellicano simbolo cristologico legato al sacrificio di sé stessi in favore degli altri.
I due dipinti mostrano il cambiamento interiore e il cammino spirituale che Alfonso III d’Este ha percorso, da principe elegante ed intransigente a devoto e indigente frate cappuccino.
BIBLIOGRAFIA:
“Annali dell’ordine de’ frati minori cappuccini composti dal Padre Marcellino da Mascon, e tradotti in volgare dal P.F. Antonio Olgiati da Como predicatore dello stesso ordine” Tomo primo, parte terza – in Trento M DCC VIII
“Ricordo intorno a due quadri rappresentanti l’uno Alfonso III Duca di Modena e l’altro sua moglie Donna Isabella Infanta di Savoja i quali trovansi nella sacrestia della chiesa votiva in Modena con altri cenni analoghi del Conte Gio. Francesco Ferrari Moreni” Modena 1855
“Compendio storico della città e provincia di Modena dai tempi della Romana Repubblica sino al MDCCXCVI di Monsignor Giuseppe Baraldi” Modena Antonio ed Angelo Cappelli 1846
Del cappuccino d’Este che fu nel secolo il ser.mo Alfonso 3 duca di Modana e nella religione serafica il Pre. Gio Battista predicatore apostolico e della ser.ma infanta d. Isabella di Savoia sua dilettissima consorte, nascita, vita, morte e sepoltura – Giovanni da Sestola – Per Bartolomeo Soliani 1646
Luciano Chiappini “Gli Estensi: mille anni di storia” – Ferrara: Corbo, 2001
Treccani Dizionario Biografico degli Italiani